La Nuova Ferrara

L’intervista

Ferrara, Daria Bignardi: «Trent’anni di carcere, condivido il mio viaggio»

Samuele Govoni
Ferrara, Daria Bignardi: «Trent’anni di carcere, condivido il mio viaggio»

La giornalista e scrittrice è tornata in libreria con “Ogni prigione è un’isola”

27 marzo 2024
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Ferrara «Quello del carcere è un tema doloroso e respingente, se sono riuscita a parlarne scrivendo un libro vivo e interessante sono contenta». A dirlo è Daria Bignardi, giornalista e scrittrice ferrarese, che oggi torna in libreria con “Ogni prigione è un’isola” (ed. Mondadori). L’opera affonda le radici indietro nel tempo, cuce insieme storie e vite diverse, racconta il volto umano di un mondo che troppo spesso viene relegato ai confini della società. In occasione dell’uscita ne abbiamo parlato con l’autrice.

Bignardi, quando nasce questo libro?

«Credo addirittura quando ero bambina e il pomeriggio andavo a giocare a casa di un’amica che abitava in via Piangipane, dove fino a qualche anno fa c’era il carcere di Ferrara. Il maestro ci aveva detto che ci era stato rinchiuso anche Giorgio Bassani. Qualche anno dopo, quando avevo 19 anni, ci finì per un paio di mesi anche il mio ragazzo. Da allora ho sempre avuto interesse per le carceri».

Quando è stato il suo primo approccio con il carcere?

«Attorno al 1997 o ’98 ho cominciato a seguire dei progetti con un gruppo di detenuti di San Vittore, uno degli istituti penitenziari di Milano. Li intervistavo su un tema diverso a settimana poi mandavo in onda le loro riposte nel programma che facevo allora, Tempi Moderni. Da allora non ho più smesso di andare in carcere, anche se non continuativamente perché ogni tanto mi prende la desolazione, visto che la situazione delle carceri invece di migliorare peggiora sempre. Quest’anno ci avviamo a un altro record di suicidi».

Nel corso del tempo si è imbattuta in detenuti diversi, ciascuno con la propria storia. Ce n’è una che le è rimasta impressa?

«Tantissime: le racconto nel libro. Come quella di Tino Stefanini della banda Vallanzasca, che ha iniziato a rubacchiare a 13 anni per gioco e poi ha fatto “l’Università”, come dice lui, proprio a San Vittore. O quella di Marcello Ghiringhelli che abitava alla periferia di Torino in una famiglia molto semplice. Da ragazzino guidava la moto così bene che voleva prenderlo la Ducati ma la mamma non voleva che andasse a Bologna. Lo mandò a lavorare come apprendista. Lui scappò nella Legione Straniera poi diventò un rapinatore e poi un brigatista. È stato in carcere più di 40 anni. Ma racconto anche le storie degli agenti di polizia penitenziaria che ho incontrato. In carcere stanno male tutti: guardie e carcerati».

Per scrivere ha scelto di spostarti a Linosa, l’isolamento l’ha aiutata o è stato faticoso?

«Le isole sono un po’ delle prigioni e le prigioni sono isole, ma isole senza bellezza».

In questo libro parla anche di “prigioni interiori”, cosa intende?

«Ne abbiamo tante, tutti. Quelle che ci costruiamo da soli, altre che vengono da condizionamenti e traumi. Dogmi, dipendenze, rapporti simbiotici».

Com’è stato raccontare questa realtà da un punto di vista umano?

«A un certo punto ho deciso di condividere le esperienze che ho fatto in questi 35 anni che frequento carceri, detenuti, ex detenuti, direttori, agenti. È un mondo parallelo al nostro. Nascosto eppure – per molti aspetti- identico alla vita vera, come se ne fosse un distillato».

Quando ha cominciato a scrivere non si è più fermata o è stato un viaggio che ha richiesto delle soste?

«È stato molto difficile e stavo per rinunciare diverse volte perché è un tema molto spinoso e complesso e doloroso ma alla fine chi lo ha letto – come Sisto Rossi, uno dei detenuti di cui parlo- mi ha detto che leggerlo è stato come bere una birra fresca a Ferragosto. E il cardinale Zuppi mi ha scritto che il mio racconto rende il carcere meno isolato. È stata una grande emozione ricevere di questi messaggi. Mi hanno ripagato con gli interessi della fatica che ho fatto».