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Il libro

Caveduri, una vita per il cinema a Ferrara: «Da “Il laureato” fu amore»

Veronica Capucci
Caveduri, una vita per il cinema a Ferrara: «Da “Il laureato” fu amore»

Dal Manzoni all’Uci, l’ex gestore si racconta. Lunedì incontro all’Ariostea

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Ferrara Un fascio di luce dal proiettore, una comoda poltrona rossa dentro cui sprofondare mentre si guarda il film proiettato sullo schermo. È una magia il cinema, che rivive nel cuore di ogni spettatore innamorato del grande schermo. Gabriele Caveduri è responsabile di questo innamoramento per gene-razioni di ferraresi, che hanno avuto la fortuna di transitare nel suo cinema Manzoni dove ha proiettato storie e dove ospitato cineasti desiderosi di dialogare con il pubblico. Dall’amore per il cinema nasce “Inseguendo il cinema che spacca i cuori” (ed. Faust Edizioni) di Gabriele Caveduri, con un’introduzione di Riccardo Milani. Il libro sarà presentato lunedì 22 settembre alle 17 alla biblioteca Ariostea e per l’occasione l’autore dialogherà con Gian Pietro Zerbini, Lorenzo Baraldi ed Elena Pagnoni. Un testo che racconta in prima persona la passione dell’autore per la settima arte, attraverso un sottile rimando a citazioni tratte dai film che introducono e si mescolano ai vari racconti. Una vita da esercente cinematografico quella di Caveduri, iniziata giovanissimo alla sala Estense e conclusasi al multisala Uci e che racconta alla Nuova.
Caveduri, come nasce questo libro?
«Nasce da una vita passata nei cinema, guardando i film ma guardando anche la gente che veniva a vedere quei film. All’inizio gli avevo dato anche un altro titolo: “Ogni film racconta una storia” dove la storia raccontata non era quella che passava sullo schermo ma quella della persona che stava entrando per vederlo».
Cos’è per lei il cinema che “spacca i cuori”?
«Una frase, una sorta di parabola che ho sentito da Carlo Mazzacurati in uno dei suoi passaggi al Manzoni e che ho preso in prestito per la prima storia andando alla ricerca, in questa epoca di bulimia produttiva, di quei titoli (pochi) che, quando li vedi, ti riconciliano con la bellezza del cinema. Quelle opere che ti inchiodano alla poltrona a volte facendoti tremare di paura, altre facendoti ridere, altre ancora piangere. Film che poi ti restano dentro per tutta la vita».
Centrale nei racconti presenti nel libro è il pubblico, che lei da gestore ha vissuto molto da vicino. Come è cambiato negli anni?
«Fondamentalmente direi che è “invecchiato” nel senso che i giovani sono più attirati da serie televisive e film su piattaforme che non escono in sala. In sala accorrono per i film Marvel o altri blockbuster. Il cinema d’autore è piuttosto snobbato. C’è meno curiosità per il nuovo, l’esotico. Mi ricordo che nel 1973 un film “difficile” come “La montagna sacra” riempì per settimane le sale. Un film simile oggi non lo vorrebbe vedere nessuno».
Quali film sono stati importanti nella sua educazione cinematografica?
«L’innamoramento avvenne con il cinema americano degli anni ’60/’70. “L’ultimo spettacolo” e “Paper Moon” di Peter Bogdanovich; ma anche “L’ultima corvè” di Hal Ashby, “La caccia” di Arthur Penn e poi “Il laureato” di Mike Nichols, “Il mucchio selvaggio” di Peckimpah ed i primi film di Spielberg e Scorsese. Poi è arrivata la scoperta dei grandi film italiani del passato, da “Roma città aperta” a “La lunga notte del’43”. Mi piace molto anche la commedia all’italiana, quella fatta bene, come “C’eravamo tanto amati” di Scola e a certi lavori di Dino Risi e Mario Monicelli».
Ha conosciuto numerosi autori e registi. C’è qualcuno di conserva un ricordo particolare?
«Negli anni Ottanta e Novanta, con altre sale d’essai della regione, ci siamo inventati una rassegna “Accadde domani” invitando nelle nostre sale autori esordienti o quasi che solo dopo hanno acquisito fama e considerazione: quindi i bei ricordi riguardano Carlo Mazzacurati, Giuseppe Piccioni, Ferzan Ozpe-tek, Riccardo Milani, Guido Chiesa… Poi ho un grande bel ricordo di Florestano Vancini, l’abbiamo portato in giro per le sale della regione con il suo ultimo film, “E ridendo l’uccise”. Io poi sono andato a trovarlo diverse volte quando era ricoverato al San Giorgio, abbiamo parlato molto di cinema ed è stato uno dei primi a leggere le mie storie e ad esortarmi ad andare avanti».
Il Manzoni è stato per generazioni di ferraresi il luogo dove imparare ad amare il cinema. Cos’ha significato per lei gestirlo?
«Col senno di poi e sarò pragmatico: un lavoro. Un lavoro che per anni mi ha occupato tutte le sere e tutti i weekend e di cui non sentivo il peso, il sacrificio. Anzi guardando indietro e confrontandomi con altri mi reputo fortunato per aver fatto per quasi tutta la mia vita, cose che nello stesso tempo mi piacevano e mi consentivano di vivere arricchendomi, non solo economicamente».